FUS, attori e la possibile utilità del teatro adesso
Annoto queste considerazioni partendo da quelle
proposte dal mio amico Carlo Cerciello e di altri amici che in questi giorni,
su FB
(http://www.facebook.com/notes/elicantropo-teatro/cultura-e-teatro-anatomia-del-sistema-teatro-il-dibattito-continua-di-carlo-cerc/178317575511899),
hanno avviato una discussione circa lo stato dell’arte teatrale.
1 – Il sistema FUS credo sia stato un disastro per il
teatro e la cultura in generale. E per il suo aspetto clientelare (marca tipica
dell’italianità a partire dall’antica Roma, mica da adesso), e per i suoi
criteri “quantitativi” che hanno inevitabilmente favorito le dinamiche malate
accuratamente descritte da Carlo Cerciello. D’altro canto, i criteri
qualitativi non sono concretamente oggettivabili, dunque una loro adozione
provocherebbe probabilmente cicli ancora più viziosi di quelli provocati da
logiche quantitative (chi e secondo quali parametri stabilirebbe la qualità
maggiore o minore?) L’unica maniera in cui, probabilmente, l’istituzione
potrebbe essere di sostegno al teatro (o almeno ad alcuni modi di fare teatro)
senza divenirne un fattore ingerente,
potrebbe essere, da parte sua, il conferimento - a chi ne fa richiesta e
con progetti ponderati alla mano - di spazi pubblici in comodato, da destinarsi
ad attività culturali anche a beneficio del territorio, nonché l’agevolazione
fiscale per i soggetti che investono in cultura. Spetterebbe poi agli operatori
gestire questa opportunità in maniera produttiva ed autonoma (sia in senso
quantitativo che qualitativo). Naturalmente ciò può accadere quando le
istituzioni sono sane e i suoi interlocutori altrettanto: allo stato attuale
non sembra essere il nostro caso. I molti esempi della cronaca recente e non,
testimoniano chiaramente lo stato di malattia, specie comunicativa, che ammorba
l’intero sistema. Ora, se c’è una parte immunitaria che ancora funziona, il
sistema recupera il suo equilibrio omeostatico espellendo da solo le sue parti
malate. Se la componente immunitaria non funziona più, il sistema raggiunge il
massimo grado di entropia per poi collassare definitivamente. Le disponibilità
energetiche sprigionate dal collasso si ricombinano, generando un nuovo
sistema: è un principio fisico che si muove al di là dei giudizi politici e
morali che si potrebbero formulare a riguardo. Sposando una sana dis-peranza,
resta sul piano pratico soltanto lavorare, per quello che le condizioni attuali
lo consentono, dalla parte del sistema immunitario. La malattia è oramai
conclamata, null’altro c’è da aggiungere a riguardo.
2 - Essere attore (o più in generale dedicarsi al teatro) è una scelta di vita
(“immunitaria” verrebbe da dire), prima ancora che di mestiere, che implica
l’accettazione dell’incertezza quale elemento costituente lo statuto ontologico
di questa opzione. Fare questo tipo di scelta vuol dire investire su se stessi
e sui propri compagni di viaggio, mettendo in conto (o rifiutando) finti
provini, dinieghi, promesse immantenute, confronti (persi a volte in partenza)
col mercato, frustrazioni ma anche
riconoscimenti, stati di grazia, incontri importanti, insomma alti e bassi come
passaggi fisiologici di un tracciato del genere. Qualsiasi forma di sicurezza
è, probabilmente, incompatibile con la natura del teatro (verrebbe da dire con
la natura della vita) e col principio di libertà sostanziale. I problemi di
sussistenza di chi abbraccia una scelta così radicale quale è quella del
teatro, vanno probabilmente risolti o cercandosi “un posto al sole” o qualsiasi
altro posto che possa fornire quel minimo di risorse necessarie all’esercizio
della propria libertà in altre sedi, e questo non inevitabilmente rischiando di
divenire monadi solitarie senza identità o di perdere la dignità (resterebbe
poi da definire cosa siano identità e dignità ma questo è un altro capitolo).
Quanto al problema della scarsità di lavoro, si tratta, allo stato attuale, di
una questione che investe tutte le categorie sociali, e come tale merita dunque
considerazioni ed azioni (metapolitiche?) che vanno oltre i limiti di questa discussione. Ancora: la formazione
dell’attore è un problema che ciascuno è chiamato a risolvere con la propria
serietà, disciplina e studium (cura di sé e delle cose), scegliendo le scuole,
i laboratori, i seminari, gli stages, le accademie, i palcoscenici, ma anche
qualsiasi altro posto, compreso quelli in cui apparentemente non ci sarebbe
teatro, per potere coltivare se stesso (e gli altri, che è lo stesso). Ci sono
luoghi più appropriati di altri, forse, ma questo rilevamento e le scelte che
ne conseguono è giusto che siano a carico di chi si avvia per questa strada
(ognuno scelga il proprio modo di fare teatro e se ne assuma tutte le
responsabilità, insomma). Se
questo implica la necessità di sviluppare una doppia e tripla vita, attraversamenti
di terre sconsacrate e non, ben venga tutto ciò, se la posta in gioco è
l’immunità dalle malattie del sistema, nonché la conquista della propria
dignità (essere pienamente all’altezza di se stessi) e della propria libertà
(essere in risonanza con se stessi e con il sistema di cui abbiamo scelto più o
meno consapevolmente di far parte).
3 – Quanto all’autoreferenzalità dei teatranti, è un
problema endemico che riguarda anche molti altri ambienti, compreso i meno
sospetti. È cosa che ha a che fare con un malinteso senso del potere e
dell’identità, probabilmente. Fin quando non ci libereremo (o rivedremo) altre
possibili declinazioni di questi due assiomi incancreniti, non credo si possa
andare molto oltre. Cominciare da se stessi e dai propri compagni di viaggio e
proseguire nella ricerca di altri, immaginando un arcipelago di monadi
(autonome e in sé compiute, perché no) ma ricche di porte e finestre,
generatrici di altre possibilità combinatorie, che non siano quelle attuali.
Possibilmente parlando meno d’immondizia, metaforica e non, perché se è vero
che la realtà si riflette nelle nostre rappresentazioni, è anche vero – e forse
è questa una delle possibili attuali utilità del teatro – che le nostre
rappresentazioni possono gradualmente rimodellare la realtà. Torma ancora il
teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse
saranno reali nelle loro conseguenze”. Un problema di linguaggio (credo che
Andrea De Rosa in questo senso abbia ragione), un problema che è etico ed estetico
a un tempo, prima ancora che politico.
Per Ale
Cara Ale ti ringrazio intanto per avermi reso partecipe di tuoi pensieri importanti, ne sono onorato. Vorrei poterti dire cose altrettanto importanti, ma non credo di esserne capace. Probabilmente perché le cose importanti non vanno nemmeno dette, soprattutto perché ogni dire è sempre inevitabilmente inadeguato. Ad ogni modo, quello che vorrei dirti tu già lo sai. Il problema è che sapere le cose non garantisce l'automatica risonanza su quello che facciamo. Pensiamo, il più delle volte, delle cose e ne facciamo altre: è lo standard umano medio, perché l'allineamento tra quello che siamo, pensiamo, vogliamo, dobbiamo, possiamo e sappiamo è il compito più difficile che ci tocca risolvere e non tutti ci riusciamo.
Il punto di partenza di ciascuno è sempre svantaggiato, per un elementare meccanismo naturale che ci porta a credere di essere, di partenza, in diritto di felicità. Per quello che mi riguarda credo invece che nasciamo per essere carne da macello (la natura non ha alcun riguardo per l'individuo, ma solo per la specie). Questo non vuol dire che lo si debba essere "per forza". Ci sono sforzi che si possono fare per liberarci da questa condizione "naturale" di partenza. Si tratta però di sforzi "innaturali" e come tali ostacolati fortemente (è come andare contro la forza di gravità) dalle danze tribali della vita.
Si può vivere lasciando una porta chiusa per sempre e non sapere cosa ci sia dietro, ma se la porta si socchiude è enorme sofferenza fino a quando non si è trovata la forza (e quella potenzialmente la possediamo tutti) per varcarla e andare a vedere cosa ci sia oltre.
Il di qua della porta è la vita minuscola, essenziale, dolcemente ignorante di chi non si fa tante domande e riesce a mantenere un contatto vivo e diretto con le cose essenziali, direi quasi animali. Un beneficio che tocca a pochi oramai, visto che la gran parte di noi è coinvolta in mondi e dinamiche dove la guerra (in senso metaforico e reale) è la norma comportamentale di base.
Il di là della porta è probabilmente la stessa cosa, cambia però il nostro rapporto con le cose, aumenta la nostra possibilità "divina".
La possibilità divina direi che è quella che ti consente di attraversare il mondo da amorevole osservatore che sa quello che può, deve, vuole fare e lo fa, lo fa per quello che vale in sé, nella piena, assoluta e rasserenante disperazione (la disperanza, nelle sue conseguenze, è molto più salutare della speranza, che spesso reca con sé un mare di delusioni). Non aspettarsi niente ma agire come se ci si aspettasse tutto mi sembra una buona regola, ammesso che esistano buone regole.
Ho l'impressione che tu chieda troppo o troppo poco a te stessa. Perdonami, ma mi sembra che tu sia alquanto ingiusta con te stessa. Non hai nulla da farti perdonare così come non devi perdonare niente a nessuno. Il "perdono", così come "la colpa", sono parole vuote che dovremmo cancellare dal nostro dizionario. Non so perché ti dica questo ma ho idea che, in qualche modo, abbia a che vedere con il tuo malessere.
Cerchi le definizioni, ma quelle sono buone per la carta. Nella realtà resta quello che si prova, la capacità direi istintiva di distinguere i veleni dalle cose benefiche, sapersi tenere lontani dagli uni e impiegare al momento opportuno le altre. Se continuiamo ad avvicinare persone per noi "sbagliate", può voler dire due cose: o che il nostro istinto è andato a farsi benedire, o che cerchiamo tutti i modi per farci male ed in entrambi i casi, dipende solo e soltanto da noi. Non esiste sfortuna.
"Amore" è per me una di quelle parole talmente troppo usate che ho pudore persino a pronunciarla. Non so cosa significhi e, detto francamente, nemmeno me ne importa. Le parole mi servono per rimettere ordine, per scrivere, per teorizzare. Per vivere, preferisco "disordinare", usare il minor numero possibile di parole e di concetti. Vado, guidato dalla mia bussola interiore che mi porta esattamente nei luoghi in cui è appropriato che io sia presente, e non sempre sono quelli che avrei preferito o desiderato, ma ci vado lo stesso e possibilmente attrezzato e "vestito" nel migliore dei modi. Questa pure mi sembra una buona regola (sempre che le regole esistano). Soprattutto, non leggo poesia. I poeti, come i filosofi, sono umanamente scartine e quello che dicono, raffrontato a quello che vivono, è spesso un pacco. Non in senso dannunziano, credo che la più grande espressione artistica sia la vita stessa: sono poeta e attore e pittore e musicista e danzatore nel treno che mi porta a Roma, sulla strada che mi porta a scuola, nel supermercato mentre faccio la spesa o mentre faccio i conti dei soldi che non ho. Al di fuori di questi ambiti, parliamo di cazzate. Meravigliose cazzate, ma cazzate.
Non ho consigli da darti, posso solo dirti come cerco di vivere (ed è una gran fatica ma la trovo interessante), come ogni giorno converso amabilmente coi miei "mostri" (ognuno ne ha un bel po' da nutrire) perché non mi sbranino ed imparino a dirmi qualcosa d'interessante, è tutto. Ascolto.
Poi ci sono i problemi "concreti", le ristrettezze, le difficoltà materiali. A quelle non si può consentire di schiacciarci, perché siamo di gran lunga più "longevi" dei nostri problemi contingenti. Quello che ci manca, se davvero ne abbiamo bisogno, davvero, prima o poi l'avremo, se avremo pazienza costanza e fermezza (e queste sono declinazioni della disciplina: ogni giorno è palestra). Se non le avremo, vuol dire che non era quello di cui avevamo veramente bisogno. La vita è gentildonna e il tempo, suo compagno, non è da meno. Su questo puoi avere fiducia massima, se un po' mi credi.
Non so se ti ho detto le cose appropriate, se ho risposto alle tue domande (ammesso che siano domande), ma è quello che "d'istinto" mi è venuto da dirti.
Ti abbraccio, ci vediamo a teatro. m
Nota per Pat amica ritrovata
C'è un piccolo caso ed è quello relativo alle accidentalità che la vita abbandona sui percorsi di ciascuno. C'è poi il Superdio Caso, figlio di questo piccolo caso che, raccolto dal passante attento, viene adottato, cresciuto, nutrito fino a farne quel dio che ciascuno di noi vorrebbe incontrare. Pat, ti ingrazio, perché per risponderti ho messo a fuoco un pensiero.
Rubarsi le idee (nota per l’amica Giulia)
I confini di titolarità delle idee sono alquanto labili. Spesso attribuisco ad altri pensieri o idee che, probabilmente, io stesso ho partorito, ma anche viceversa. Non credo abbia molta importanza: nessun uomo intellettualmente equilibrato credo si possa arrogare la titolarità assoluta di un’idea. Le idee sono venti, correnti che attraversano i tempi, scompigliano talvolta, distruggono, rinfrescano o passano senza nulla ferire. Il merito di un autore – se mai ne abbia uno - sta solo nell’averle colte, coltivate e restituite sotto forma appropriata all’epoca di appartenenza. Nemmeno Kant ha inventato nulla di nuovo. Quanto ai plagiari – quelli veri, puri – sono una pregiata minoranza, e si nascondono molto bene. Spesso sono nomi illustri.
Nota per l'amico Ribelle
Cose facili non ne conosco. Forse talvolta mi saranno anche capitate sotto gli occhi, ma nemmeno le ho riconosciute. Quello che voglio dirti è ciò che ti ho detto già molte volte (mi ripeto e mi ripeto): se le cose fossero facili tutti gli uomini sarebbero grandi e felici. Invece la differenza è tutta qui: tra chi dice "non è facile" e per questo rinuncia, e chi dice "non è facile, ma io lo sono ancor meno".
Col mio amico Antonino, da ragazzi, ci scambiavamo spesso questo microdialogo:
A: Ma secondo te, la vita, da noi, cosa vuol sapere? M: Nulla. A: E noi dalla vita? M: Ancor meno...
e subito dopo ci rimettevamo ad armeggiare intorno ai nostri sogni, a progettare ali adeguate a un volo elegante, leggero e sicuro (per quanto lo possa essere un volo). Qualche volta si precipita, ma anche questo fa parte del gioco.
Procedi, amico mio. Cura le tue forze, che in qualche modo sono anche le mie.
Degli "ismi" e degi "isti"
Gli ismi e gli isti sono i virus dai quali ci si dovrebbe meglio riguardare, perché generano torpore. D'altro canto, di ismi e di isti se ne ha bisogno perché la nostra natura è pigra e conforme alla legge (naturale, prima ancora che economica) del massimo rendimento al minimo sforzo: gli ismi e gli isti sono facilmente riconoscibili, hanno loro specifici protocolli d’intesa… non richiedono nessuno sforzo per capire, non implicano nulla da dire, da dichiarare, da osservare, che non sia già detto, collaudato, definito. Agli ismi, agli isti, ai sopra e ai sotto d'ogni sorta preferisco la sana diffidenza e la cautela necessaria a decifrare le complessità.
mm, Manuale distruzioni.
Dammi tre parole. Se non sono buone, meglio tre carote
Uno dei compiti dell’etica dovrebbe essere quello di restituire alla parola il suo potere taumaturgico. Contro un uso selvaggio o inconsistente, l’etica dovrebbe provvedere a una rimaterializzazione della parola, a un recupero della sua natura di farmaco nella doppia accezione di veleno che uccide e e balsamo che guarisce. Recupero della parola in senso etico vuol dire anche ricondurre alla luce il naturale legame che corre tra essa e i fatti, tra le promesse verbali e il loro mantenimento nei comportamenti. Ogni parola che possa dirsi tale, vale come promessa mantenuta prima ancora di essere data. In alternativa, carote.
(Sorrento, 7 agosto 2007)
Nota per l'Amico Ribelle
Amico mio abbiamo entrambi perso un'occasione per cercare di essere migliori di quello che di norma siamo. Torna a scuola. Accetta per ora questo "ordine" come atto di fiducia nei miei confronti. Vedo cose, sui tuoi prossimi passi non lontani da questi, che tuo malgrado per ora non riesci a immaginare. E sono cose per cui vale respirare.
mm
Sfoglia
febbraio
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